La traduzione coreografica

V. ESPERIENZE E RIFLESSIONI

La traduzione coreografica.
Riflettere sul tema del “passaggio” nella danza.


di Cristina Righi

 

   

 

 

Premessa

In questo intervento mi propongo di adottare un punto di vista che coniughi aspetti dell’analisi linguistica, semiotica e coreografica 1 alla luce della parola-chiave traduzione e che mi permetta così di trattare di alcune problematiche relative alla ricostruzione coreografica come se le danze ricostruite fossero testi e, in particolare, esempi complessi di testi tradotti. Questo approccio trae spunto e origine dal fecondo dibattito sulla Traduzione, che non cessa di produrre risultati anche nell’ambito della traduzione cosiddetta “intersemiotica”. Si tratta di un campo vasto e articolato in cui non mancano le questioni controverse già a partire dal senso stesso da assegnare ai termini ‘traduzione’ e ‘traduzione intersemiotica 2. 
Ciò che tenterò di fare dunque, è stagliare sullo sfondo di tale dibattito lo specifico di un discorso sulla ricostruzione nella danza. Mi pare infatti, che il parallelismo con il processo di Traduzione, sia essa interlinguistica o intersemiotica, possa contribuire a porre in evidenza alcuni dei problemi che il coreografo-ricostruttore, così come il traduttore, deve affrontare nel momento in cui si propone di ricostruire una coreografia e quindi, come vedremo, di ri-crearla ridandole vita. L’ottica di esplicita contaminazione si configura come una modalità d’indagine che sento particolarmente affine e che pertanto adotterò anche qui, pur sapendo che non è sempre facile sottrarsi alla spinta di deriva che ne scaturisce. Il rischio di dispersione è compensato, tuttavia, dal vantaggio di promuovere la ricerca di accostamenti inediti, capaci di stimolare la riflessione in direzioni inusuali portando altri punti di vista sul nostro oggetto. Certo, l’impostazione interdisciplinare impone cautela, soprattutto sotto il profilo terminologico. Un’attenzione particolare è sempre richiesta quando si esportano argomenti, con tutto il loro vocabolario, fuori dalla loro propria disciplina dove si sa di poter contare -almeno in teoria- su un lessico più o meno condiviso. Ecco allora che dovrò cercare di chiarire come in questo breve scampolo di discorso sulla ricostruzione coreografica il processo di traduzione (intersemiotica) sia chiamato in causa. 
Non potendo entrare nel merito del dibattito né di alcune problematiche importanti insite in ciò di cui si parlerà, il mio discorso non può prefiggersi alcuna esaustività. Anzi, è bene insistere sulla provvisorietà delle riflessioni che seguono, che non possono certo aspirare ad alcuna conclusione definitiva e che, tra l’altro, dipendono da quella che é la mia capacità o meno di comprensione dei ‘fatti’ di cui parlerò, nonché dalla mia abilità o meno di esprimermi su di essi. Inoltre, dato il poco tempo a disposizione, i temi che ho scelto di toccare non sono che alcuni tra i molti possibili e mi auguro che la loro semplificazione, quantunque necessaria in questa sede, non ne falsi la reale complessità ma solleciti semmai ulteriori approfondimenti. Tutto ciò mi espone a molteplici obiezioni. Mi limiterò pertanto, in un’ipotesi già fortunata, a proporre questioni a cui offrire temporanee risposte unicamente nella speranza che queste suscitino a loro volta altre domande. 


Notazione e traduzione (intersemiotica)

Si può guardare alle forme notative della danza non in quanto aventi solo una funzione meramente trascrittiva/descrittiva ma piuttosto una vera e propria funzione traduttiva. Nella traduzione, un principio importante è quello della reversibilità e, nonostante differenze o somiglianze più o meno marcate a livello delle diverse rappresentazioni in notazione, anche il Testo Coreografico Notato e il Testo Coreografico-Performance si possono riconoscere come l’uno quasi l’altro e viceversa 3 . Il fatto è che i due Testi dicono la stessa danza, ma non la dicono nella stessa lingua, o meglio, nello stesso linguaggio. 
Proprio sulla distinzione tra lingua e linguaggi si fonda, a sua volta, la distinzione tra traduzione interlinguistica e traduzione intersemiotica. Col termine traduzione tout court solitamente si intende quella interlinguistica (con tutte le sue varianti), mentre di traduzione intersemiotica si parla per lo più quando il passaggio traduttivo implica il ricorso a linguaggi differenti. Disponiamo quindi di una distinzione metodologica che sembra proporre la traduzione intersemiotica come un caso particolare della Traduzione ed è in questo senso che parleremo di traduzione coreografica come ‘traduzione’, intendendo per l’appunto ‘traduzione intersemiotica’ 4. Va detto inoltre che, parlando di sistemi notazionali della danza, tenderò ad estendere la portata del termine ‘notazione’ fino ad includere non solo i sistemi grafici simbolico-formalizzati, ma anche i sistemi che usano mezzi video e/o computerizzati per la registrazione del movimento. 
Le forme di notazione per la danza producono testi che sono più ricchi e complessi di una semplice partitura intesa come insieme di istruzioni tecniche di interpretazione artistica. La notazione coreografica, in particolare, ha la necessità di tradurre un medium tridimensionale che è per sua natura composto da più elementi che concorrono alla produzione di quel tipo di movimento (artistico) che chiamiamo ‘danza’. Il compito non è semplice. Nel proprio mezzo espressivo infatti, la notazione deve catturare gli elementi della corporeità gestuale di una particolare poetica coreografica nella globalità testuale delle sue componenti di forme e significati sia sul piano dell’espressione che sul piano del contenuto e nel contesto coreograficamente pertinente al testo. Possiamo allora dire che a livello testuale, la notazione coreografica, interpretandola, traduce la coreografia che trascrive?


Coreografia e traducibilità intersemiotica

Da un punto di vista semiotico, l’idea che la danza sia traducibile in altri linguaggi, specie artistici, materialmente diversi da essa si basa sul riconoscimento di analogie di fondo che, ad un qualche livello, sono comuni ai diversi mezzi espressivi 5. In prospettiva intersemiotica questo può tradursi, tra l’altro, nella possibilità di migrazione di tratti, strutture e modelli organizzativi che possono passare da un linguaggio all’altro, naturalmente secondo le modalità proprie di ciascuno. 
Per quanto riguarda la traducibilità della danza in linguaggi diversi, una delle possibili direzioni è quella in cui si attua una ri-costruzione coreografica che (ri)traduce una danza nel suo proprio medium, quello coreografico appunto, a partire da un supporto di notazione diverso.
Se la danza è un linguaggio, la coreografia ne rappresenta la modalità d’espressione artistica in quanto opposta, ad esempio, a quella più tecnica collegata all’acquisizione delle abilità fisiche e pertinente per lo più agli aspetti del training corporeo. La coreografia, in quanto modalità artistica del movimento, presenta numerosi punti di contatto con la poesia, ad esempio nelle poetiche autoriali che essa è in grado di esprimere, nelle strategie espressive che mette in atto, negli effetti che manifesta nel suo compiersi e in quelli che produce nello spettatore. Come è noto, la poesia è tra i testi creativi più difficilmente traducibili in quanto rientra tra quelli massimamente ambigui 6.
L’ambiguità testuale è interessante proprio nella misura in cui produce aree sfumate, dai confini imprecisi, talvolta addirittura lacunose -un vero e proprio vuoto 7 - che caratterizzano l’imperfetta coincidenza dei significati e dei significanti, dei contenuti e delle forme dei testi tra i quali intercorre la relazione traduttiva. Nelle lingue naturali, tale imperfezione si manifesta già a partire dalla difficoltà di trovare sinonimi perfetti in lingue diverse e si ripropone a tutti gli altri livelli testuali con cui la traduzione interlinguistica deve confrontarsi, dai più semplici (le parole) fino ai più complessi (lo stile). Questa zona aperta, questo spazio vuoto che si viene a creare tra i margini di vocaboli, espressioni ecc., insomma di tutto ciò che non coincide nel passaggio tra la Lingua1 e la Lingua2, sta alla base dell’inevitabile scarto che si produce tra il Testo-Fonte e la sua traduzione ed esiste grazie al fatto che il Testo è per sua natura intrinsecamente ambiguo. Tale ambiguità è notoriamente massima nei testi artistici e soprattutto, come abbiamo detto, nei testi poetici, mentre è minima, o almeno dovrebbe esserlo, nei testi di tipo funzionale-operativo (ad esempio, un insieme di istruzioni). Nonostante ciò, il linguaggio poetico rimane traducibile, pur richiedendo consistenti dispendi di energia e una bella quantità di compromessi sul fronte dell’interpretazione 8.
Nel processo di traduzione interlinguistica di un poema che passa da una L1 a una L2 cambiano le caratteristiche formali delle sostanze dei rispettivi sistemi linguistici e il modo in cui essi segmentano il continuum dei contenuti sul piano dell’espressione. In un processo di traduzione intersemiotica in cui sono coinvolti un Testo Coreografico e una sua forma di notazione invece, oltre a questo, ciò che cambia nel passaggio dal Testo Coreografico Fonte/Notato al Testo Coreografico Ricostruito è anche la materia del medium, i supporti altri rispetto alla performance, che concorrono all’attualizzazione ri-creativa del nuovo testo, secondo le modalità organizzative proprie di ciascun linguaggio coinvolto nel passaggio traduttivo. All’interno della propria materialità, ciascun medium ha infatti la propria organizzazione, la propria struttura, il proprio funzionamento, i propri tratti distintivi. Nel caso della danza diventa dunque una questione cruciale definire ciò che è implicato sul piano dell’espressione (e, di riflesso, sul piano del contenuto) dall’uso di media così differenti per materia nel passaggio dal TCN al TCR in performance. Questo passaggio, di cui è possibile anche il movimento in direzione contraria (da un Testo Coreografico- Performance alla sua versione in notazione), è considerato qui un passaggio di tipo traduttivo e un esempio di traduzione intersemiotica con trasposizione di forme e contenuti in sostanze materiali diverse, reso possibile dall’intrinseca traducibilità della coreografia in altri linguaggi, in altri media.


Scarto traduttivo e riscatto (ri)creativo

L’ambiguità testuale, già presente a livello intralinguistico, si accentua nel passaggio interlinguistico e intersemiotico. Questo fa sì che lettori e traduttori si facciano veri e propri interpreti per poter affrontare i problemi legati allo scarto di senso e di forme che la traduzione produce e che devono essere risolti entro i limiti di un’interpretazione la quale, in base al contesto, sarà definita come più o meno accettabile9. Anche nella danza, il punto o i punti testuali in cui l’ambiguità si manifesta sono il luogo in cui avviene ciò che permette di andare oltre la ricostruzione per arrivare alla (ri)creazione coreografica. Si tratta di luoghi vuoti, spazi liberi che permettono all’atto (ri)creativo del ricostruttore di compiersi. In questo modo, il cruccio tradizionale del traduttore, quella frustrazione implicita nel mestiere che è data dalla coscienza dell’impossibilità di essere completamente fedele all’originale, diventa la risorsa su cui fondare un vero e proprio riscatto (ri)creativo. 
Ammettendo l’ambiguità in quanto costitutiva del Testo, e riconoscendo l’esistenza di un gap traduttivo anche tra il Testo1: TCF-Testo Coreografico Fonte e la sua traduzione (intersemiotica) che costituisce il Testo2: TCR- Testo Coreografico Ricostruito, si comprende come l’esistenza di zone sfumate/lacunose/vuote in quanto luoghi portatori di vari gradi di ambiguità o mancata coincidenza testuale si configuri, anche nel caso della ricostruzione coreografica, come un insieme di spazi aperti. In questi spazi il ricostruttore di danze, così come il traduttore, può esercitare il proprio potere creativo, sottraendosi al ruolo di mero esecutore meccanico di trasformazioni predeterminate dalle istruzioni contenute nel supporto notativo. La traduzione coreografica riacquista così una sua legittima valenza produttiva e non solo ri-produttiva proprio in quanto processo di trasformazione non privo di una sua creatività. 
Parlando di ricostruzione coreografica, penso soprattutto al caso della performance dal vivo e alle implicazioni relative al suo riallestimento quando tale processo ricostruttivo parta da una notazione. Per analogia con quanto accade nella traduzione interlinguistica, possiamo porre il Testo-Ricostruito come Testo-d’Arrivo (T2: TCR) rispetto ad un Testo-Fonte T1 (TCF) quando lo consideriamo in quanto performance dal vivo originale, mentre chiameremo Testo Coreografico Fonte/Notato (T1a: TCF/N) la versione trascritta/tradotta del T1:TCF in una forma di notazione che può essere di tipo grafico simbolico-formalizzato, oppure di tipo filmico, o ancora di tipo computerizzato. Lo schema che segue (Fig.1) cerca di riassumere questa possibile impostazione. Almeno in teoria, anche il percorso in direzione contraria dovrebbe essere possibile, semmai solo parzialmente (da T2 a T1a) e, anzi, sarebbe interessante poter quantificare le differenze che T1 o T1a subisce lungo il percorso di andata e ritorno.


T1----------------------> T1a--------------------------> T2 
TCF-------------------> TCF/N----------------------> TCR
Testo Coreografico Fonte Testo Coreografico Fonte/Notato Testo Coreografico Ricostruito
originale (tridimensionale, (testo trascritto-tradotto su carta/ (tridimensionale, danzato dal vivo)
danzato dal vivo) video/computer che può essere a
sua volta considerato un originale;
bidimensionale)

<--------------------------------)<-----------------------------------------------<--------------------------------
Figura1 


Cerco qui di non vincolarmi oltremodo al mezzo notativo/traduttivo, cosa che tuttavia sarebbe da farsi per mettere in giusta evidenza le peculiarità del funzionamento sul piano dell’espressione e sul piano del contenuto dei singoli linguaggi caso per caso. Vorrei invece sottolineare, poiché ne discuteremo tra breve, che tutti i media dipendono in misura maggiore o minore dall’interpretazione del notatore. 
Il TCR appare come un Testo d’Arrivo che produce almeno una duplice aspettativa. Innanzitutto, in un’ottica per così dire filologica di fedeltà storica alla fonte, il TCR aspirerebbe alla massima aderenza possibile nei confronti dell’originale e quindi presupporrebbe il più rigoroso mantenimento di tutti i tratti che lo caratterizzano. Tuttavia, in un’ottica ri-creativa di rivitalizzazione/riattualizzazione della fonte, il TCR si pone come un Testo che manifesta innanzitutto l’apporto creativo e (r)innovatore del ricostruttore, esaltando suo malgrado lo scarto inevitabile tra sé e il Testo originale (TCF e TCF/N). 
Questo scarto tra T1 e T2, come già detto, è ciò che ci interessa maggiormente, poiché se è vero che si presenta come un tratto distintivo di tutti i processi traduttivi in cui l’equivalenza è il massimo grado di coincidenza a cui si possa aspirare, anche nel caso della ricostruzione coreografica esso è ciò che ne sottolinea la portata in quanto processo (ri)creativo a tutti gli effetti, punto di svolta in grado di renderla un’autentica ri-creazione. 


Ambiguità, margini interpretativi e vuoti coreografici

Tra linguaggi che poggiano su media materialmente diversi, il processo di traduzione intersemiotica può produrre equivalenze che si avvicinano o si allontanano dal T1 soprattutto in ragione del diverso grado di somiglianza, a livello di struttura e funzionamento, di quei tratti dell’espressione e del contenuto che rendono possibile il passaggio da una forma testuale all’altra. I sistemi di notazione simbolico-formalizzati, come la Labanotazione ad esempio, si sono sviluppati con lo scopo preciso di catturare il movimento, quindi si sono sviluppati in modo da - mi si perdoni il gioco di parole - parlare la stessa lingua di ciò che dovevano tradurre, trovando modi sofisticati di rappresentazione grafica del movimento. Se una coreografia è notata in un sistema grafico simbolico-formalizzato sofisticato, o in un sistema computerizzato di traduzione del movimento altrettanto o ancor più sofisticato, la corrispondenza tra la danza e la sua notazione può essere estremamente vicina anche se, come negli altri casi di traduzione, anche la migliore equivalenza avrà lasciato comunque dei margini in cui non tutto combacia perfettamente. 
Qui, in questi vuoti, si infiltra l’apporto (ri)creativo dei vari interpreti, intesi non solo come performers, ma anche come tutti coloro che partecipano al farsi del percorso ricostruttivo-traduttivo. Nel caso di una coreografia notata su supporto filmico, la corrispondenza visiva è più immediata per via delle caratteristiche del mezzo che cattura le immagini, ma anche il video, contrariamente all’apparenza, non può che lasciare aperte piccole lacune testuali che vanno riempite durante la ricostruzione/ricreazione della coreografia nella sua propria dimensione di performance 10. In questo senso, ricostruire una danza significa recuperarne forme e/o contenuti (ri)traducendoli nel suo proprio medium coreografico di arte della performance, ovvero riportandoli alla dimensione danzata più prossima all’originale (TCF nella migliore delle ipotesi, TCF/N se T1 non è più disponibile). 
La ricostruzione coreografica (TCR) a partire da una notazione sarà tanto più fedele all’originale che l’ha preceduta (TCF tridimensionale), e anche al successivo originale in notazione (TCF/N), quanto più il notatore avrà saputo trasferire con accuratezza e precisione nei simboli propri al sistema adottato (grafici e non) i vari tratti dell’espressione e del contenuto cinetico/semantico/emotivo/passionale/ecc. della danza. Questi tratti comprendono naturalmente le principali componenti coreografiche, cioè quegli elementi fondamentali del medium che riguardano almeno l’uso dello Spazio e del Tempo combinato nella Dinamica/Energia delle forme e dei contenuti. Ma una buona notazione avrà saputo tradurre anche e soprattutto quei tratti idiosincratici e idiolettali del testo coreografico che caratterizzano la poetica del coreografo e lo stile del brano, rendendolo un’opera artisticamente distinguibile, autorialmente attribuibile e, pertanto, stilisticamente connotata e riconoscibile rispetto ad altre. 
Dunque, colui che ricostruisce una danza ha molto in comune con il traduttore linguistico, soprattutto nel confronto con la gestione dell’ambiguità testuale che porta sul problema interpretativo. Limitiamoci a porre in evidenza alcune delle componenti più macroscopiche che interessano il processo di notazione-interpretazione del movimento. Il notatore deve tradurre, trascrivendoli nei simboli/mezzi offerti dal sistema utilizzato, non solo i movimenti dei singoli performers ma anche il movimento coreografico globale creato da tutti i corpi sulla scena. Nel fare questo, egli non può prescindere dal proprio sguardo, dal proprio punto di vista, anche quando si fossero realizzate le migliori tra le condizioni ideali possibili e il processo notativo potesse avvenire all’interno di una prassi il più possibile oggettivante. Colui che trascrive e/o registra su video e/o /sintetizza al computer, al di là di ogni parvenza di oggettività, non può evitare di tradurre/trascrivere/registrare che una tra le visioni possibili della coreografia - la propria, in quel contesto -, la cui soggettività si manifesta a livello interpretativo quantomeno nei criteri che hanno guidato la sua scelta relativamente ai simboli e alla loro disposizione o all’inquadratura delle immagini e al loro montaggio ecc. Gli si offrono infatti più opzioni di notazione e/o più punti di vista per catturare lo stesso movimento o la stessa scena. 
La questione dell’interpretazione nelle arti della performance è una questione che si articola in modo molto complesso e pluristratificato e che richiederebbe un lungo approfondimento. Mi limito a ricordare che all’interpretazione del notatore, che già si somma come minimo a quella del coreografo e a quella del danzatore, se ne aggiungono altre, ineludibili quando si tratta di performance dal vivo, che coinvolgono altri partecipanti alla costruzione del testo coreografico. Tra questi figura anche il ricostruttore 11.


Ri-costruire, ri-contestualizzare, ri-creare

Pur essendo sempre presupposto, T1 in quanto TCF può non essere più disponibile. Il processo di ricostruzione può trovarsi allora a partire da T1a, cioè da un testo coreografico in una qualche forma di notazione che viene assunto a sua volta a testo-fonte (TCF/N). Il processo ricostruttivo approda così a T2, il Testo Coreografico Ricostruito che riguadagna la sua propria dimensione di performance. Questi passaggi sono estremamente delicati poiché, come in tutti i passaggi traduttivi, qualcosa si perde e/o qualcosa si aggiunge in T2 rispetto a T1. Ma che cosa? 
Innanzitutto, cambiano in modo evidente le condizioni di presenza degli elementi fondamentali del medium, non tanto nella loro materialità (T1 e T2 sono entrambi testi 3D che ricorrono al medium coreografico per attuarsi), quanto nel loro rifarsi performance, processo vincolato soprattutto a variazioni di sostanza corporea. La variazione di sostanza corporea dei performers ha effetti non secondari sul testo ricostruito, poiché gli aspetti qualitativi della danza che derivano dalla corporeità dei danzatori si fanno veicolo di potenti sfumature connotative a livello di senso del testo coreografico. Chi ricostruisce la coreografia infatti, ricostituisce la danza con altri danzatori che divengono parte del medium, sostanza viva e sensibile. Essi avranno altri corpi, saranno altri individui e diventeranno sulla scena altri performers con altre personalità artistiche, altre capacità tecniche, altri vissuti emotivi e passionali, altre esperienze, ecc. Lo stesso coreografo-ricostruttore avrà altre motivazioni, agirà in un altro spazio, in un altro tempo e per altri spettatori, a partire da un corpus di elementi che, a seconda della distanza temporale e/o spaziale e/o culturale che separa T1 da T2, può aver poco o nulla a che fare con le condizioni in cui è nata la danza originale. La performance ricostruita di quella danza non sarà allora fedele all’originale se non nelle intenzioni di chi, in buona fede, si impegna ad esserlo, pur sapendo che, suo malgrado, non potrà mantenere l’impegno fino in fondo. La ricostruzione, anche la più accurata, non potrà che essere infedele, come lo sono in una certa misura tutte le traduzioni, soprattutto quelle dei testi poetici/coreografici a causa del loro elevato potenziale di ambiguità e dello scarto insito nelle loro stesse premesse traduttive. 
Nella lingua, i sinonimi non sono mai sinonimi perfetti ma semmai buoni equivalenti, il cui significato devia sempre un po’ dalla parola originale. I margini sono sempre un po’ sfasati soprattutto quando si ha a che fare con gli aspetti qualitativi del testo 12. Anche per la coreografia si possono imporre scelte non soddisfacenti quando una di esse viene ricostruita e riallestita con ciò che il ricostruttore ha a disposizione nel suo contesto, cioè nel suo tempo/ spazio/ cultura/ ambiente/ecc. Egli può dover decidere se e quali aspetti dell’originale sacrificare per esaltarne altri 13, sapendo che lo scarto tra il TCF e il TCR non può mai essere completamente colmato. Ma questi scarti, queste aree di spazio vuoto, anziché separare, caratterizzano l’incontro tra il Testo-Fonte e il Testo d’Arrivo, rappresentando la vera forza vitale dell’intero processo traduttivo-ricostruttivo. 
E’ qui che si colloca la potenzialità creativa della traduzione e della ricostruzione e che permette di guardare con rinnovato interesse ad un’operazione che sarebbe altrimenti percepita come implicitamente riduttiva in quanto meramente riproduttiva. La ricostruzione coreografica diventa un processo vivo, una ri-creazione che, in quanto tale, si allontana suo malgrado dal rischio e dalla possibilità di essere semplicemente una trasposizione fedele dell’originale.


Corporeità stratificata e vuoti intertestuali

Il vocabolario della ricostruzione nella danza 14 offre un interessante panorama dei termini che si riferiscono al processo ricostruttivo, in ciascuno dei quali è possibile rintracciare una tendenza all’enfasi o alla riduzione dell’aspetto creativo. Ricostruire, restaurare, ripristinare, ricreare, effettuare un revival, recuperare ecc. sembrano insistere di volta in volta su un aspetto considerato dominante del processo ricostruttivo, sia esso la notazione scritta in quanto testo di partenza, oppure la portata di elementi creativi aggiunti all’originale ricreato, o ancora la ripresa di una danza a cui viene dato nuovo smalto grazie a piccoli o grandi cambiamenti, o la necessità dell’aderenza all’originale. In taluni casi, si coglie tutta la fatica di chi può solo seguire tracce sparse, e non dispone che di frammenti, per ricomporre un’opera considerata perduta. In quest’ultimo senso, il ricostruttore diventa come un traduttore del passato, una figura che pare impossessarsi dei tratti dell’archeologo, del filologo, dell’investigatore, del decifratore di lingue morte, del crittoanalista 15. Se si parte da un passato assai remoto infatti, l’operazione traduttiva di un testo può presentare vuoti e lacune ancora più numerosi e non necessariamente marginali.
Il ricostruttore di un’opera coreografica contemporanea o comunque recente, può contare su un gran numero di fonti documentarie dirette e indirette 16 e su una vicinanza temporale, e spesso anche spaziale e culturale, che forse rende meno dissimile gli stili e la formazione dei corpi dei danzatori per quanto concerne la qualità plastica e dinamica dei loro movimenti. Chi si accinge invece a ricostruire una danza ‘morta’, appartenente ad un passato lontano anche dalla nostra sensibilità e dalla tipologia dei danzatori contemporanei, dovrà affrontare i problemi di una ricostruzione coreografica in cui soprattutto la diversità di sostanza del medium, attualizzata anche attraverso la corporeità dei danzatori, produrrà inevitabilmente una danza molto diversa dall’originale, malgrado gli sforzi per rispettarne l’accuratezza filologica. La corporeità, elemento sempre presente e fondante nelle attività umane, è un tratto complesso e distintivo sia dell’individuo inteso come essere umano completo, che ovviamente del performer-danzatore. Dell’importanza della corporeità nella vita quotidiana troppo spesso ci si dimentica, mentre quando si pensa ad un performer è più facile riconoscerla e ricordarsene, dal momento che nella sua attività l’impatto visivo e cinestesico del movimento del corpo è macroscopicamente importante. Nel discorso coreografico la corporeità è, come ci si aspetta, un tratto fondamentale del medium, le cui implicazioni sono critiche relativamente alla ricostruzione di coreografie del passato, ma restano rilevanti anche nella ricostruzione di coreografie contemporanee, relativamente ad esempio allo scambio di brani di repertorio tra compagnie per quanto riguarda i differenti effetti d’esecuzione che si producono attraverso corpi diversi.
I corpi dei performer cambiano nel tempo e non solo i corpi che appartengono a individui di epoche diverse, ma anche quelli che appartengono agli stessi individui nell’arco della loro vita. I corpi cambiano per via dell’età, certo, ma anche per via dei tipi di training a cui sono sottoposti e in base ai quali si creano corpi-per-la-danza spesso stilisticamente o disciplinarmente connotati (il corpo della ballerina classica, il corpo del danzatore moderno, il corpo del danzatore postmoderno-contemporaneo, ecc.) 17, tutti costruiti in una qualche opposizione al corpo cosiddetto ‘naturale’ del non-danzatore. Il corpo del performer, con tutto il suo bagaglio di esperienze personali, è un corpo in progress forse più consapevole di altri, un corpo in continua costruzione e in costante evoluzione, in cui tutti gli aspetti fisici/ emotivi/passionali/intellettuali ecc. sono canalizzati nella produzione della performance. Proprio per questa sua intrinseca stratificazione, questo corpo è un elemento del linguaggio coreografico di primaria importanza a livello intertestuale. 
Se è vero che una coreografia, in generale, si configura come un testo multistratificato da interpretazioni plurime, ciò è ancor più vero per un TCR che l’interazione e l’interpretazione di molti attori -in senso semiotico- ha reso di una intertestualità pluristratificata, la cui manifestazione è lineare nel senso che si svolge nel tempo, ma spessa e densa non solo di significati ma di forme anche a livello sincronico. La corporeità, in quanto elemento sensibile vivo, è soggetta a pluristratificazione e densità su più fronti. Il carattere dell’intertestualità, che nella letteratura si identifica con il richiamo, l’eco, il rimando strutturale o narrativo di testi precedenti le cui tracce aleggiano in testi successivi, assume nella coreografia una complessità che non si limita alla semplice citazione, esplicita o implicita, di un’altra coreografia o di un altro coreografo. 
Prima ancora di essere un’intertestualità a livello narrativo, strutturale o stilistico, infatti, l’intertestualità coreografica poggia sulla complessa costruzione di competenze plastiche del movimento, fissate a livello muscolare nella stratificata e complessa memoria corporea dei singoli performer. Tale intertestualità fisica è prodotta in parte da una formazione tecnica che nel danzatore contemporaneo tende ormai ad essere polivalente, in parte dal fatto che un danzatore si appropria nel suo percorso, letteralmente incorporandole in se stesso, di modalità di movimento appartenenti a tecniche diverse, ognuna con le proprie varianti di stile coreografico. Naturalmente, non si tratta solo di un corpo di carne. Tutte le influenze artistiche, personali, esperienziali e cinetiche, che il danzatore assorbe dai maestri, dai coreografi, dai danzatori che ha incontrato nel suo percorso - ma, più in generale, da ciò e da chi ha incontrato nella vita -, si fondono con i nuovi tratti di movimento (ma non solo) che continuano ad essere acquisiti e, mescolandosi con i propri, si adattano al suo corpo artistico in funzione delle caratteristiche fisiche individuali, delle preferenze cinetiche soggettive, della finezza delle percezioni cinestesiche personali che confluiscono nel suo modo di danzare e, più in generale, di essere.
Sia che si tratti di costruire, ricostruire o decostruire, difficilmente il corpo di un danzatore potrà mai spogliarsi né dei propri tratti umani, né dei propri tratti tecnico stilistici, restando di fatto materia connotata da un background di vissuto individuale di cui difficilmente ci si può sbarazzare. I tratti della corporeità individuale sono letteralmente impastati nelle fibre della carne di ciascuno, e costituiscono il patrimonio della nostra storia soggettiva, la nostra ricchezza personale, il cui azzeramento, la cui neutralizzazione, se anche fossero possibili, non ne costituirebbero che un tragico impoverimento. Pertanto, anche quando si parla di strategie coreografiche che implicano procedure di reificazione dei corpi o vari tipi di mascheramento, incluso l’uso più sottile della ‘maschera neutra’, si parla sempre di espedienti relativi e mai assoluti, in cui la neutralità e la spersonalizzazione dell’individuo restano programmi artistici a cui tendere attraverso particolari strategie interpretative, da non confondere tuttavia con alcuna condizione che avesse come fine una neutralità ontologicamente postulata del corpo del performer. Tanto il danzatore quanto il coreografo-ricostruttore portano quindi innanzitutto se stessi nel TCR, contribuendo così a ri-crearlo con le proprie soggettività rinnovatrici e con la propria corporeità già intrisa di personale vissuto individuale a cui si sommano esperienze cinetiche e artistiche. 
Per (ri)allestire una coreografia fedelmente nella sua ricostruzione, il coreografo e i danzatori dovrebbero essere in grado di farsi assolutamente neutri, sottraendosi alla loro stessa identità e cancellando il loro vissuto precedente in una spoliazione di cui è difficile riconoscere i vantaggi. In quest’ottica, per poter incorporare traducendoli fedelmente in se stessi, i movimenti originali di una coreografia da ricostruire, i danzatori dovrebbero spogliarsi dei loro ‘abiti’, delle loro abitudini e preferenze cinetiche e coreografiche per farsi corpi di altri tempi, di altri luoghi, di altri danzatori. Ma la necessità di ricostruire una coreografia attraverso lo scarto e la differenza di corporeità anche molto distanti dall’originale propone a questo proposito una soluzione attiva: la possibilità dell’apporto ri-creativo anche a questo livello del testo coreografico.
Per concludere, proprio nei vuoti traduttivi creati dal mancato sovrapporsi del TCR con il proprio Testo-Fonte va cercata la forza (ri)creatrice della ricostruzione coreografica. E’ l’imperfezione dinamica dell’equivalenza, non la perfezione statica dell’identicità, ciò che fa anche della ricostruzione nella danza una sempre possibile ri-creazione.


NOTE

1. Il mio discorso si caratterizzerà, nel complesso, più per la complicità che per l’opposizione nei confronti del linguistico e del verbale, poiché mi pare che oggigiorno gli studi di danza possano recuperare tutti i vantaggi di uno scambio e di un confronto costruttivo con gli studi di afferenza linguistica, senza più il timore che questi risultino eccessivamente dominanti. Tra l’altro, sebbene forse non così frequentemente, può capitare d’imbattersi in un linguista come Émile Benveniste, che riconduce la nozione di ritmo proprio alla danza, mettendone a fuoco il ruolo primario della localizzazione corporea: cfr. Problemi di linguistica generale (1966), Milano, Il Saggiatore, 1990, cap. XXVII, pp. 391 400. Su questo scritto di Benveniste, cfr. F. McCarren, “Stéphane Mallarmé, Loie Fuller, and the Theater of Femininity”, in E.E.Goellner-J. Shea Murphy (a cura di), Bodies of the Text. Dance as Theory, Literature as Dance, New Brunswick, N. J., Rutgers University Press, 1995, pp. 217-230, ed in particolare la nota 14 di p. 229.
2. Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003. Nell’ “Introduzione” è delineato l’andamento del dibattito.
3. Ibidem. In particolare cfr. il cap. 3 sulla reversibilità. 
4. Tuttavia, se non avessimo a disposizione tale distinzione, c’è almeno un caso in cui potrei non trovare totalmente inaccettabile parlare di traduzione coreografica utilizzando il termine ‘traduzione’ in senso proprio, cioè quando uno dei due Testi coinvolti nel passaggio traduttivo fosse una notazione grafica di tipo simbolico-formalizzato e l’altro fosse un Testo-Performance. Penso in particolare alla Labanotazione, un sistema di notazione grafica simbolico-formalizzata talmente compiuto da ricordare la complessità e la capacità espressiva di una lingua, anche se la lettura/scrittura di una coreografia in questo sistema notativo e la sua (ri)traducibilità in movimento presuppongono una competenza del sistema e della danza che, a differenza di una lingua naturale, rimane appannaggio di relativamente pochi esperti. A proposito di lingue e linguaggi altri c’è da chiedersi se non vi siano alcuni casi che sembrano essere veri e propri borderline. Se pensiamo, ad esempio, a una lingua naturale non occidentale come il cinese o il giapponese, vediamo che queste lingue sintetizzano in simboli graficamente strutturati e complessi l’espressione di contenuti articolati (cfr. D. Lowry, Lo spirito delle arti marziali (1995), Milano, Mondadori, 1999, in particolare l’ “Introduzione”, pp. 13-28). In questi agglomerati significanti di tratti grafici, il mondo naturale è catturato -tradotto- in maniera molto diversa dal modo in cui lo colgono, ad esempio, le nostre parole o le nostre stringhe linguistiche: essi sono come un concentrato di contenuti. Vista la rilevanza che l’aspetto visivo assume in tali forme di scrittura -non a caso ‘calligrafiche’- ci si può domandare se alcune lingue naturali non abbiano anche implicazioni intersemiotiche. Se così fosse, forse il confine tra ciò che strettamente pertiene alla traduzione intersemiotica e ciò che pertiene alla traduzione interlinguistica andrebbe ritracciato. 
5. Vasili Kandinskij parla, ad esempio, di “un’affinità fra le arti” (Lo spirituale nell’arte -1912-, Milano, Bompiani, 1966, p. 47.
6. Cfr. U. Eco, “Replica”, in Interpretazione e sovrainterpretazione, (1992), Milano, Bompiani, 2002, p. 169 sui testi creativi; e in particolare sulla poesia cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, cit., p. 264 e segg. 
7. Sulla nozione di vuoto cfr. in particolare: G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’oriente, (1992), Venezia, Marsilio, 2002; L. Koren, Wabi-Sabi per artisti, designer, poeti e filosofi (1994), Milano, Ponte Alle Grazie, 2002, p. 45; U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, cit., p. 51. 
8. In Dire quasi la stessa cosa, Eco parla di “negoziazione”, ad esempio a p. 10.
9. Il riferimento qui è sì al titolo, ma ancor più ai contenuti del saggio di Eco I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990.
10. La ripresa video è un’interpretazione mediata sia dal mezzo -la macchina da presa- che dalla visione e dai punti di vista scelti dall’operatore: una soggettività implicita a cui non sfugge nemmeno una ripresa a telecamera fissa. La ripresa video, anche se non è in grado di registrare tutto, produce un supporto visivo che può agevolare il processo ricostruttivo di una danza. Inoltre, il video propone un Testo Coreografico in cui sono già visibili performers in carne ed ossa -degli ‘attori’ semiotici,- mentre la notazione scritta propone un testo in cui figurano solo ruoli vuoti - e dunque degli ‘attanti’-.
Nel caso di sofisticati sistemi computerizzati di riproduzione del movimento, la cui fedeltà traduttiva parrebbe essere totale, sorgono alcune implicazioni interessanti. Se, in effetti, fossimo di fronte ad un meccanismo in grado di riprodurre in ogni sua particolarità la propria fonte cinetica, forse saremmo davanti non tanto ad un sistema notativo/traduttivo assolutamente fedele, quanto ad una sorta di sistema di duplicazione dell’originale. 
11. La notazione e l’’interpretazione in chiave semiotica hanno già costituito per me materiale di riflessione (cfr. Appendice II, tesi di dottorato, Semiotica e Danza. Il senso coreografico, Università degli Studi di Bologna, 2000). Qui la focalizzazione sulla ricostruzione coreografica dal punto di vista della traduzione e l’apporto stimolante di nuove letture ed esperienze mi permettono di espandere un poco il discorso.
12. Ma in Eco (Dire quasi la stessa cosa, cit.) si insiste molto anche sugli aspetti quantitativi.
13. Cfr. J.R.R.Tolkien,”Tradurre Beowulf” (1940), in Il medioevo e il fantastico (1983), Milano-Trento, Luni Editrice, 2000, pp. 89-118.
14. Cfr. Dance Words, a cura di V. Preston-Dunlop, Harwood Academic Publishers, 1995. Sono state prese in considerazione in particolare, tra le moltesull’argomento, le seguenti voci: “Translate, To” (Rosemary Butcher, interview, p. 411); “Reconstruction” (Monica Parker, interview, p. 506); “Reconstruction process” (Esl Grelinger, interview, p. 506); “Reconstructing a dance work” (Sheila Marion, 1990, p. 506); “Revival criteria” (Stuart Hopps, interview, p. 507); “Identity” (Judith Mackrell, interview, p. 507); “Re-create, To” (Murray Louis, 1980, p. 510); “Re-creating a dance work”(Sheila Marion, 1990, p. 511); “Restoring (a ballet)” (Clement Crisp, interview, p. 511); “Re-creating (a role or ballet)” (Clement Crisp, interview, p. 511); “Reconstruction” (John Percival, 1993, p. 511); “Retrieving a work” (Ray Cook, 1990, p. 599); “Historical perspective” (Els Grelinger, interview, p. 599); “Sources” (Geraldine Stephenson, interview, p. 599); “Re-creating” (Valerie Preston-Dunlop, 1988, p. 599); “Reconstruction” (Millicent Hodson, 1985, p. 600). Il dizionario di Preston-Dunlop è utile anche per approfondire altre definizioni relativamente alla danza (ad es., le componenti del medium della danza, p. 531). 
15. In Codici e segreti (1999), Milano, BUR, 2001, Simon Singh mette bene in luce il fascino e le difficoltà della decifrazione e della crittografia raccontandone lo svolgimento, i progressi, le tecniche e i risultati. Cfr. in particolare il cap. 5, “La barriera del linguaggio”, pp. 193-248.
16. Tra le fonti dirette e indirette, come spiegano Sheila Marion (“Authorship and Intention in Re-created or Notated Dances”, 1990, in V. Preston-Dunlop, Dance words, cit., p.511) e Millicent Hodson (“Ritual Design in the New Dance / Nijinsky’s ‘Le Sacre du Printemps’”, Ibidem, p.600) possono rientrare, oltre alla documentazione in notazione, anche i ricordi dei danzatori, gli appunti del coreografo, i diari dei suoi collaboratori, le registrazioni visive, le rassegne stampa, le interviste a danzatori e al pubblico, le chiacchierate con i familiari e ogni altro tipo di traccia che la coreografia possa aver lasciato dietro di sé.
17. Cfr. E. Dempster, “Women Writing the Body: Let’s Watch a Little How She Dances”, in E.W.Goellner-J. Shea Murphy, (a cura di), Bodies of the Text, cit., pp.21-38. Dempster evidenzia come, a proposito del danzatore classico, il suo allenamento inizi in giovane età con un preciso scopo di ricreazione mirato alla riproduzione dei grandi capolavori. I primi danzatori moderni, invece, non hanno ereditato tecniche e pratiche formalizzate ma hanno sviluppato nuove forme coreografiche a partire dai loro corpi, tendenza questa ancora più forte nella seconda generazione di danzatori/coreografi moderni, che hanno portato alle estreme conseguenze le premesse di inizio 900. 

 

 

Bibliografia di riferimento

P. Basso, “Per un lessico di semiotica visiva”, in L. Corrain, Lucia (a cura di), Leggere l’opera d’arte II. Dal figurativo all’astratto, Bologna, Esculapio, 1999, pp. 97- 162
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A. Duff, Translation, Oxford, Oxford University Press, 1989.
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U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione (1992), Milano, Bompiani, 2002.
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http://www.metamotion.com, 2000.


Come testi di background segnalo:
L. Corrain (a cura di), Il lessico della semiotica (controversie), Bologna, Esculapio, 1994. 
F. Marsciani-A. Zinna, Elementi di semiotica generativa. Processi e sistemi della significazione, Bologna, Esculapio, 1991.
C. Righi, Semiotica e Danza. Il senso coreografico, Tesi di Dottorato, Università di Bologna, 2000.