Butô: la tradizione dell’avanguardia

II. TRADIZIONE, TRADUZIONE, TRADIMENTI

Butô: la tradizione dell’avanguardia

di Maria Pia D'Orazi

 

   

 

 

Il mio intervento nasce da un’esperienza di collaborazione, che va avanti da oltre dieci anni, con il danzatore giapponese Masaki Iwana. Periodicamente attivo in Italia dall’inizio degli anni Novanta, tra i danzatori butô Masaki Iwana è uno dei pochi che hanno affrontato l’esperienza dell’insegnamento con un tale rigore sistematico da arrivare a una elaborazione teorica che è una esemplare traduzione dell’eredità del fondatore, Tatsumi Hijikata. Tentare di ricostruire le modalità di sviluppo del suo percorso di lavoro vuol dire allora dissolvere accreditati pregiudizi nati intorno a questo genere di danza, restituendole una dignità d’arte e un profilo tecnico ben definito. E nello stesso tempo significa individuare una direzione di ricerca che legittima anche una “generazione butô” tutta italiana, all’interno della quale spiccano, per qualità di risultati e rigore di studio, la compagnia di Silvia Rampelli Habille d’eau (Premio Scenario 2003), solisti come Alessandro Pintus, la compagnia Lios. 
Parlare di tradizione in relazione alla danza butô evoca immediatamente una contraddizione. Pur avendo ormai alle spalle quaranta anni di storia, il butô continua a mantenere una peculiarità tipica dell’avanguardia: l’erosione della forma conosciuta che permette l’emergere del nuovo. La tradizione è ciò che preserva e tramanda una forma, implica l’idea di una codificazione dell’esperienza e l’individuazione di uno stile che possono essere trasmessi come modello da imitare. Nel caso del butô la danza non può essere codificata perché non si identifica né con una forma né con un movimento, ma con un processo di accumulazione di momentanei cambiamenti in uno spazio e un tempo reali (un passaggio attraverso differenti stati del corpo). La forma stessa, ciò che dall’esterno percepiamo come un’immagine dai contorni ben definiti, dall’interno è soltanto una gradazione qualitativa e quantitativa dell’energia. La combinazione di elementi che chiamiamo stile è un susseguirsi di trasformazioni da uno stato e all’altro del corpo, che è necessariamente differente per ciascun danzatore. Il danzatore butô compie un percorso nel presente e dunque deve sempre «sforzarsi di essere contemporaneo», completamente aperto e pronto a decostruire la danza appena individuata per seguire il cambiamento del corpo (che come qualsiasi altra cosa vivente è in continua evoluzione). Tuttavia, pur presentandosi come una ricerca individuale, nondimeno il butô ha i suoi maestri, che hanno allevato a tutt’oggi almeno tre generazioni di danzatori. Domandarsi in che cosa consista l’insegnamento che passa da maestro ad allievo equivale a disegnare una mappa che costituisce appunto ciò che chiamo la “tradizione dell’avanguardia”: una concezione del corpo che giustifica e produce un comportamento scenico sempre differente e che tuttavia soddisfa e risponde ai medesimi principi.
La danza butô deve la sua formulazione al danzatore Tatsumi Hijikata, che usò questo termine per la prima volta insieme alla parola ankoku (ankoku butô, danza delle tenebre) nel 1959, a proposito di uno spettacolo intitolato Kinjiki (Colori proibiti). Un pezzo di pochi minuti, senza musica, due scene immerse nel buio: un giovane che uccide un pollo soffocandolo tra le cosce in un atto simbolico di sodomia; il rumore dei suoi passi che si allontanano e quelli di qualcuno che lo insegue. Con questo spettacolo, che era l’adattamento di un omonimo romanzo di Mishima e parlava di omosessualità, Hijikata metteva deliberatamente in discussione una modalità compositiva tipica della danza – sia essa balletto classico, danza moderna, buyô, nô o bugaku. Generalmente si parte da un contenuto, che può essere fantastico, letterario oppure provenire più direttamente dal vissuto emotivo degli interpreti, e si costruiscono una serie di movimenti, che a loro volta possono derivare dalla tradizione (sia come intere coreografie che come successione di passi), oppure essere elaborati attraverso una serie di improvvisazioni. Quindi si realizza questo contenuto con una corrispondente combinazione di gesti e musica di sottofondo. Ovvero il corpo non è altro che un mezzo per comunicare qualcosa già stabilito in precedenza. Al contrario, per Hijikata la danza si trova già all’interno del corpo, è una memoria, individuale e collettiva, sedimentata nel corso del tempo e che il danzatore, rinunciando a presentarsi come il veicolo di un messaggio, lascia apparire sulla scena esibendo il corpo stesso come materia. 
Il punto di partenza di Hijikata è stato l’esposizione di un corpo ridotto a sostanza naturale, che non ha alcuna volontà d’espressione e può solo mostrare le immagini provenienti dal subconscio e dalla memoria dei muscoli: pura presenza. Un corpo che rinuncia ad esprimere ed espone se stesso come “deposito della memoria” come se fosse fatto di carta, strati di carta sovrapposta, ognuno dei quali rappresenta la memoria fisica dei nostri atti, e la memoria dell’intero universo come forma dell’energia. Nella danza, foglio dopo foglio, questa memoria si presenta sulla scena e l’essenza del butô è un corpo che si muove come una scultura vivente e mutevole modellata dalla vita. Il performer non deve preoccuparsi di eseguire dei movimenti, ma deve diventare consapevole delle sue variazioni interne, fisiche e mentali. Anche nel caso in cui esista una coreografia, la composizione non riguarda tanto un susseguirsi di movimenti fisici, quanto l’alternarsi di cambiamenti psico-fisici, un insieme di esperienze sensoriali di un determinato spazio-tempo, che possono avere sul corpo riflessi visibili o invisibili.
Per richiamare particolari stati fisici e sensazioni, Hijikata era solito lanciare ai suoi danzatori stimoli verbali, suoni evocativi che tentavano di catturare ogni genere di emozione, paesaggio, idea o sensazione. Si trattava di espressioni che proponevano progressive trasformazioni («Una donna che diventa cavallo, lumaca e fantasma: i suoi nervi devono farsi così sensibili al punto che la sua destinazione diventa nello stesso tempo parte del suo corpo. Lei non può scegliere quale danza eseguire. Questo processo cambia continuamente poiché dipende da ciò che la circonda»), dettavano il ritmo dell’azione («Esprimi i petali dei fiori, nello stesso tempo altri petali di fiori ti coprono. Gli ingredienti del fiore, che sei tu, traboccano nel mondo esterno. Danzare un fiore ci mostra la gioia di cambiamenti che avvengono nel tempo e nello spazio. Ma non sei la cosa più vicina ai fiori quando smetti di cercare di essere un fiore?»), o ancora provocavano azioni in risposta a delle suggestioni («Una ragazza cieca appare fuori da uno stagno e cammina sulle Ninfee di Monet. Ritorna nella stagno. Danza la palude, il fango, l’acqua, gli steli delle ninfee che ondeggiano nell’acqua, gli odori, l’oscurità»). Un esercizio tipico si chiamava mushikui (morsi d’insetto). Il suggerimento iniziale era: «Un insetto sta strisciando fra il tuo dito indice e il medio sul dorso della mano e poi sull’avambraccio e sul braccio». Il maestro sfregava una bacchetta avanti e dietro su un tamburo emettendo un suono strisciante, poi toccava quelle particolari parti del corpo per dare una qualche impressione fisica all’allievo. A poco a poco il numero di insetti cresceva e alla fine: «Tu non hai scampo. Alla fine sei mangiato dagli insetti che entrano attraverso i pori della tua pelle, e il tuo corpo diventa cavo come un animale impagliato». Secondo Yoko Ashikawa, l’allieva prediletta di Hijikata, la cosa importante era che ogni insetto fosse al suo posto esatto, e che si riuscisse a mantenere la percezione di ogni singolo animaletto anche col crescere del loro numero. La parte più difficile: “esserci” non semplicemente “immaginare” la situazione. Attraverso le parole, il metodo di Hijikata tendeva a rendere i danzatori consapevoli delle loro sensazioni fisiologiche, insegnando loro a oggettivare il corpo per essere abili di «ricostruire» i loro corpi come cose materiali. E gli esercizi avevano lo scopo di raggiungere un tale controllo sia psicologico che fisiologico, da rendere possibile trasformarsi in qualsiasi cosa: «da un tappetino bagnato al cielo». 
Il procedimento di lavoro elaborato da Hijikata è stato la base per la creazione di uno stile che appartiene unicamente a lui. La storia del butô mostra che spesso i risultati sono stati confusi col metodo, dando luogo a una galleria di stereotipi che finiscono per negare il valore e il significato della danza stessa. Ma, al di là del suo linguaggio, restano le ragioni e i modi in cui le sue opere sono state create, il percorso creativo che le ha rese possibili.
Il lavoro di Masaki Iwana parte dalla necessità di ristabilire l’identità del butô, il suo significato e possibilità di sviluppo attraverso una riflessione suoi principi originari. La danza di Hijikata era l’inevitabile risposta di un’artista alla sua epoca. Chiunque si consideri danzatore butô oggi deve «creare il suo personale butô rendendolo contemporaneo al proprio tempo, ponendo delle domande ai propri corpi ed esplorando differenti modi di danza individuali: rivisitare se stessi e danzare il proprio butô mentre, nello stesso tempo, lo si decostruisce». 
Partendo dall’idea che la danza non è altro che «la realizzazione corporea di sogni e desideri», Iwana circoscrive il perimetro del butô in opposizione alla danza moderna, presa in un’accezione generica, e delinea una netta differenza di campo determinata da due diverse concezioni del corpo: da una parte il corpo come «entità vivente» analogo alla semplice materia; dall’altra il corpo come «entità danzante», che resta «cittadino» in un ambiente di cui accetta significati e simboli basati su norme sociali condivise. Una differenza che non è in alcun modo un giudizio di valore ma una diversa modalità di vivere il presente della scena che contrappone l’idea di presenza e la possibilità di trasformazione del corpo alla padronanza di una tecnica che viene esibita in quanto tale; l’abilità di generare lo spazio piuttosto che occuparlo; la totalità del tempo vissuto contro l’idea del tempo come successione di istanti; la realizzazione del paesaggio interiore al posto della produzione di forme e movimenti; la creazione di immagini astratte che vivono d’ambiguità alla creazione di immagini uniche e definite; la velocità e il ritmo della natura contro la velocità e ritmo intenzionali; un concetto di bellezza che contiene anche il suo opposto e gli aspetti oscuri dell’esistenza contro la raffinatezza formale; un rapporto col pubblico basato sulla capacità di sentire a un rapporto basato sulla capacità di capire. Il corpo per il butô, dunque, possiede un suo interiore tempo e spazio che coesiste, comunica ed è in armonia con il tempo e lo spazio esterno. È il corpo individuale abbracciato dal cosmo e dalla natura che Iwana definisce «corpo totale». 
Il percorso che conduce alla danza è individuale. È necessario riconoscere le caratteristiche dei propri elementi interni e trasformarli in un meccanismo. Il passaggio da un elemento all’altro produce una trasformazione che percepiamo come danza, ma il metodo per trasformarsi in qualcosa d’altro non può essere imposto dall’esterno, ognuno deve cercarlo e svilupparlo da sé. Quando gli elementi interni vengono pienamente attualizzati, le qualità del danzatore crescono in astrazione ed emerge una sorta di dualità. Per esempio nel butô sollevarsi non vuol dire semplicemente sollevarsi fisicamente ma è anche il sorgere di un demone, e in un simile demone può esistere il sesso opposto del danzatore, un animale oppure un fiore. Le caratteristiche di ciascun elemento variano da individuo a individuo.
L’immaginazione, quando è precisa e concreta, può trasformarsi in una immagine, un quadro visibile all’esterno, perché modifica il corpo, il suo peso, la sua forma, la qualità della sua energia. Ma la condizione fisica da sola non può produrre alcuna immagine. Il meccanismo indica sempre una condizione fisica e spirituale insieme. 
Muoversi con la concretezza e la precisione di una entità materiale – pietra, olio, acqua, alcool, polline, luce, cenere – è solo tecnica. La tecnica è qualcosa di molto concreto, fisico. Il meccanismo coinvolge anche una componente spirituale. E la danza è sempre un compromesso tra il desiderio e la condizione fisica. La cenere per esempio indica un tipo di energia fragile e delicata che può essere una donna che ha perso il figlio e passa tutto il tempo a cercarlo vagando senza memoria. La sua mente è altrove, come il pugno di cenere che contiene il foglio di carta da cui proviene, qualcosa che è morto ma ricorda la sua forma precedente. 
Masaki Iwana ha elaborato una serie di proposte di lavoro che individuano differenti stati del corpo in relazione alla quantità e alla qualità d’energia usata. Questi esercizi, che propongono un modello naturale, devono partire sempre da una domanda: che cos’è questa sostanza? Quale caratteristiche ha? Poi si può immaginare di trasformare in una personalità questa entità lasciando emergere il proprio paesaggio interiore. La forma indica una qualità e una quantità dell’energia che provocano nel corpo una trasformazione sensoriale percepita all’esterno come un’immagine capace di evocare nell’attore e nell’osservatore un corrispondente contenuto emotivo. 
È un processo simile a quello che l’attore usa per visualizzare il personaggio. Spiega Taviani:

La visualizzazione non è qualcosa di “istintivo”, di “spontaneo”, non indica le immagini che ci appaiono in mente da sé quando facciamo il nome di una persona o di una cosa, o quando sentiamo una storia. È una pratica, o una tecnica (..) basata sulla visualizzazione dei particolari che può avere diversi usi (l’uso dello scrittore; dell’attore; o del contemplatore nelle diverse forme di preghiere e di esercizio spirituale). L’accrescersi dei particolari crea una sorta di vita nell’immagine o nella persona visualizzata, finché essa sembra muoversi e mutare spontaneamente. 

Si può modellare il proprio comportamento sull’entità visualizzata in due modi: a partire dall’imitazione esterna; oppure a partire dall’interno, dalla qualità dell’energia. In questo secondo caso si individua un gesto d’ingresso, un particolare che rappresenta ciò che sta dietro la forma, il suo impulso interno, uno schema interno d’energia. Un’impronta di moto che è il seme di una famiglia di forme possibili.

   
 

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