Riflessioni sull’eredità della danza hindu nel Novecento

II. TRADIZIONE, TRADUZIONE, TRADIMENTI

Riflessioni sull’eredità della danza hindu nel Novecento

di Vito Di Bernardi

 

   

 

 

L’argomento del mio intervento è di proporzioni molto vaste, addirittura smisurate, e nel proporlo non ho mai pensato ovviamente di poterlo trattare in maniera esauriente. Mi sembrava comunque importante introdurre nel primo convegno di AIRDanza una prospettiva non indirizzata unicamente all’analisi della storia della danza occidentale. Tenterò quindi nel breve tempo a disposizione di focalizzare soprattutto alcuni aspetti del rapporto Oriente-Occidente, un tema, a mio avviso, cruciale nella storia dello spettacolo del Novecento. Mi limiterò a delle riflessioni su tre aree di ricerca sulle quali ho lavorato a lungo o sto ancora lavorando. Queste sono: le “danze indiane” dell’americana Ruth St.Denis, maestra di Martha Graham, l’opera coreografica del grande danzatore indiano Ram Gopal ed infine il problema dell’eredità delle danze hindu in Indonesia.


Una premessa. La danza in India sale sul palcoscenico

La tradizione coreutica hindu, dettagliatamente documentata già nel Natya Shastra, il più antico trattato indiano sulla danza, non può essere considerata come un fenomeno culturale unitario: si tratta piuttosto di un vero e proprio sistema multiplo di saperi performativi in cui si sommano tecniche rituali e tecniche teatrali. A partire dai primi secoli dopo Cristo, con la diffusione della cultura indiana verso l’Asia orientale, questo sistema coreutico ha contribuito in maniera profonda alla trasformazione del concetto stesso di danza in tutto il Sud-est asiatico, dalla Birmania fino all’arcipelago indonesiano. Durante questo lungo processo di assimilazione della cultura indiana, ciascuna area geo-politica dell’Asia induista ha elaborato singoli e originali apparati simbolici in un complesso intreccio di credenze animistiche locali e di modelli religiosi provenienti dall’India. Quando allora si parla della tradizione delle danze sacre hindu ci si riferisce in realtà ad un sistema frammentario, ad una molteplicità di fenomeni che sono il prodotto di continue trasformazioni, di vere e proprie reinvenzioni di un modello sacro originario da sempre tramandato e insieme modificato, a volte tradito. 
È ormai un dato acquisito che il Bharata natyam, definito di solito come la danza indiana più antica, più pura, più vicina ai principi del Natya Shastra, è stato in realtà coreografato soltanto all’inizio degli anni Trenta, prendendo a modello il Sadir nac, la danza rituale delle ultime sacerdotesse devadasi. 
Il termine Bharata natyam fu coniato per indicare questa nuova danza che venne paradossalmente definita come “più autentica” del Sadir nac perché recuperava forme coreutiche e contenuti drammatici ritenuti più antichi, più classici. I creatori del Bharata natyam vedevano in realtà il Sadir nac con un certo imbarazzo. La danza delle devadasi era un esempio di arte coreutica ormai decaduta, addirittura legata alla pratica della prostituzione. Non è certo un caso che una delle più appassionate promotrici del Bharata natyam fosse Rukmini Devi (1904-1986), una danzatrice indiana non professionista, appartenente alla casta alta dei Brahmini.
Rukmini Devi non faceva parte della comunità Isai Vellala, a cui appartenevano i musicisti e i danzatori tradizionali, e non era, quindi, come le devadasi, una danzatrice professionista consacrata sin da bambina al culto della divinità. Non aveva nulla in comune con quell’ambiente della danza femminile accusato dalla potente borghesia anglo-indiana di analfabetismo e favoreggiamento alla prostituzione. Quella di analfabetismo era però un’accusa paradossale, perché le devadasi nella società tradizionale indiana erano tra le donne più istruite. Esse conoscevano e praticavano l’arte della letteratura, della danza, della musica e del canto. L’accusa di prostituzione era invece una forzatura ideologica, uno strumento di propaganda di chi si proponeva di trasformare velocemente la società indiana secondo modelli presi in prestito e spesso imposti dall’Occidente. È vero piuttosto un fatto: la rapida emarginazione sociale delle devadasi le proletarizzò al punto da costringere alcune di esse alla pratica della prostituzione.
Rukmini Devi si era avvicinata alla danza dopo aver visto danzare nel 1924 a Londra la grande ballerina classica Anna Pavlova. La scoperta di una dimensione alta della danza avviene quindi per Rukmini in Europa, in un momento in cui in India – nell’ India della classe dirigente – l’immagine della danza è al suo minimo storico ed è addirittura oggetto di un forte movimento di opinione anti-Nautch, cioè contro la danza femminile. È in questo contesto che il Bharata natyam nasce come un tentativo di riscatto, un riscatto che è reso possibile grazie all’epurazione dalle danze femminili di ogni aspetto legato all’erotismo sacro e quindi ad una forma di devozione sensuale del divino che è vista dalla morale puritana della classe al potere come un viatico alla prostituzione. 
La danza femminile sottratta al tempio e alla strada, alla dimensione quindi del professionismo religioso e profano, riacquista quella dignità che in realtà per la stragrande maggioranza degli Indiani non aveva mai perduta. Nell’India moderna e coloniale uno statuto di dignità per la danza femminile implica uno spettacolo teatrale colto, praticato da dilettanti che nulla hanno a che vedere con il professionismo. Su queste basi dilettantesche nascerà negli anni che precedono l’Indipendenza il nuovo professionismo urbano dello spettacolo classico, che segna il passaggio della danza, non soltanto quella femminile, dal tempio e dalla strada al palcoscenico teatrale. 
Restando all’esempio del Sud dell’India, noi vediamo scomparire del tutto la tradizione della danza delle devadasi, di cui una delle ultime grandi figure sarà Sri Balasaraswati (1918-1984), e contemporaneamente vediamo l’affermarsi del Bharata natyam. Si tratta di un caso esemplare, che ci pone di fronte ad una domanda, a mio avviso, molto importante, quando parliamo di tradizione della danza hindu nel Novecento. Di che cosa stiamo parlando se non di un fenomeno sottoposto da secoli a continue mutazioni e reinvenzioni? Mi sembra che neanche in India – a dispetto del malinteso ancor oggi molto diffuso dell’ esistenza di una tradizione millenaria - la danza si sottragga ad un processo storico che influisce sui meccanismi profondi della produzione e della fruizione coreutica.


Ruth St. Denis: la danza sacra indiana come veicolo di conoscenza

Ruth St. Denis (1879-1968) coreografò la sua prima danza indiana circa vent’anni prima di Oriental Impressions di Anna Pavlova e anzi ebbe su quest’ultima una certa influenza. Radha è del 1906 e precede di molti anni il viaggio in India di Ruth St. Denis insieme a Ted Shawn e la loro compagnia, la Denishawn. Quel viaggio, una lunghissima tournée durata un anno e mezzo, dal Giappone, alla Birmania, alla Tailandia, alla Cambogia, all’Indonesia, fino all’India, produrrà spettacoli importanti come White Jada, l’assolo cinese di Ruth St.Denis e The Dance of Shiva di Ted Shawn, assolo ispirato all’iconografia religiosa dello Shiva Nataraja, lo “Shiva Signore della danza”. 
Qui vorrei soffermarmi principalmente su alcune coreografie indiane di Ruth St. Denis, che precedettero la conoscenza reale dell’ Oriente. Già in Radhac’è un’idea filosofica della danza indiana che viene utilizzata dalla danzatrice americana per iniziare un percorso di ricerca che si propone di arrivare a riconnettere in Occidente l’evento coreutico alla metafisica. Radha, una coreografia che da un punto di vista filologico non ha alcun valore, nessuna relazione con uno stile reale di danza indiana, è la prima occasione per Ruth St. Denis di mettere a frutto le sue conoscenze della tecnica Delsarte e di impiegarle al meglio nella costruzione di uno spettacolo che ha un evidente messaggio spirituale. Certo in Radha c’è anche quella malizia teatrale rubata ad un grande maestro e regista quale era stato per Ruth St. Denis David Belasco. Ma in questo spettacolo il fatto più importante - almeno dal punto di vista dell’intero percorso coreografico della danzatrice americana - è che la danza e i suoi gesti sono legati con forza, anche se in maniera a tratti didascalica, all’espressione di un significato interiore. In Radha vi sono i gesti e i movimenti quasi impercettibili della serena contemplazione, così come quelli ampi e vorticosi dell’estasi dei sensi. C’è la rappresentazione di un conflitto interiore espresso in termini squisitamente coreografici. L’India, immaginata attraverso letture, studi iconografici dilettanteschi, incontri con orientalisti americani, con suonatori indiani che si esibiscono a Coney Island, è per Ruth St.Denis un “altrove” dove la danza può parlare ancora un linguaggio profondo, sia esso quello della mistica oppure quello del piacere sensuale più intenso. Può farlo anche contemporaneamente, come accade in Radha. Contemplazione-serenità ed esaltazione dei sensi-sfrenatezza sono i due aspetti della divinità indiana. Radha ci mostra una religiosità intimamente imparentata con i misteri dei “cinque sensi”, e ci racconta la storia di una coscienza che si ritrae nella pace della contemplazione dopo aver danzato e dopo aver spremuto nella danza ogni goccia di energia. 
Con un’operazione opposta a quella di Rukmini Devi, che attratta dall’eleganza del balletto occidentale si preoccupa di eliminare l’erotismo della danza delle devadasi, Ruth St. Denis, affascinata da un’India letteraria e filosofica, porta la danza moderna sul terreno di una religiosità il cui misticismo tende a mescolarsi in scena con il piacere dei sensi. Radha è per Ruth St.Denis il manifesto programmatico di una nuova estetica, è la dimostrazione dell’esistenza di una danza religiosa - quella indiana - in grado di rappresentare in maniera completa e profonda la lotta di un’anima per la sua liberazione. Questo potere simbolico e di trasfigurazione della danza indiana è ciò che attrae maggiormente Ruth St. Denis. È inutile e in fondo sterile cercare in queste prime coreografie indiane elementi di tecnica di danza orientale. La cosa importante è l’acquisizione attraverso l’esempio indiano di un’idea della danza come “veicolo di conoscenza”, idea che non abbandonerà mai Ruth St. Denis e che negli anni Trenta la porterà ad iniziare i suoi studi coreografici sul “personaggio” della Madonna. L’India offre a Ruth St. Denis l’opportunità di reintrodurre in Occidente, soprattutto in Europa, l’idea della danza sacra, di nobilitare, così come fa in quegli stessi anni Isadora Duncan, un’arte stanca e un po’ viziata, quasi in attesa dell’arrivo ormai imminente del grande ciclone dei Ballets Russes di Diaghilev e Nijinsky.
Vi sono in An Unfinished Life, l’ autobiografia di Ruth St. Denis pubblicata nel 1939, diversi momenti in cui la danzatrice si sofferma sulla relazione tra la danza e la religione. Sin dalle prime coreografie Ruth St. Denis riflette sulla necessità di unire una triade di esperienze che nel pensiero tradizionale indiano non sono in conflitto tra di loro, e cioè l’amore sensuale, la religione e la bellezza. 
Scriveva la coreografa: «Io credo che dentro di noi esistono le due possibilità del santo e dell’artista, e lo sforzo di riconciliazione domina l’intera coscienza […]. Molti santi hanno scritto della bellezza dei loro stati interiori, e proprio in virtù della bellezza delle loro parole queste esperienze sono arrivate a noi. Ma quanto l’artista può diventare un santo? Questa è ancora una domanda senza risposta». E ancora: «Non riesco a dividere l’amore, la religione e l’arte». È esemplare a questo proposito una pagina della autobiografia in cui la danzatrice descrive la profonda emozione suscitata in lei da un gruppo scultoreo indiano visto al British Museum di Londra. Si tratta di una scultura che raffigura l’unione erotico-amorosa tra il dio Shiva e sua moglie Parvati. Scrive Ruth St. Denis: «Shiva e Parvati sono circondati da musicisti e danzatori, in tutto il gioioso abbandono del sentimento indiano per la musica e le forme. I flauti, i tamburi, i crotali tintinnanti tra le dita delle giovani danzatrici, le ghirlande di fiori che si mettono al collo, tutto esprime un’estasi della vita che diventa, nella bellezza del simbolo, una grande e profonda verità. Shiva e Parvati, l’uomo divino e la donna divina, il principio creativo duale. Qui vi è amore, estasi e bellezza. Mi viene in mente di contro la mia vecchia concezione del dio ebraico, severo e solitario, che non divide con nessuno la sua grandezza».
Dopo il viaggio in India a metà degli anni Venti, l’attenzione della coreografa americana si sposta sempre di più verso uno studio più approfondito delle tecniche della danza indiana. Ancora una volta non è tanto il procedimento imitativo che interessa Ruth St. Denis ma invece la ricerca dei principi comuni nell’arte coreutica di differenti culture. Vi è così un’integrazione dell’iniziale approccio estetico-filosofico alla danza indiana con quello più di carattere artigianale. Questa nuova dimensione si coglie bene in queste parole scritte da Ted Shawn durante il viaggio: «Se è impossibile ricreare o duplicare quest’arte della danza in maniera esatta, essa però possiede molti principi concreti che sono universali nella loro applicazione e che dovrebbero essere imparati ed usati». Questa riflessione di Ted Shawn, così vicina al pensiero della moderna antropologia teatrale, non si discostava molto dalle idee di Ruth St. Denis. La danzatrice americana si era infatti dichiarata più volte “poco interessata” e “troppo ignorante” per tentare di riprodurre le danze e i rituali asiatici. Al suo rientro dal viaggio in Oriente ciò che la preoccupava maggiormente non era tanto il bisogno di creare dei falsi o dei trompe-l’oeil coreografici, alla Cléo de Mérode o alla Mata Hari, ma piuttosto quello di sperimentare «la possibilità di tradurre l’esperienza vissuta in una forma artistica».
The Yogi è un assolo creato in Germania nel 1908, due anni dopo Radha; eppure in esso Ruth St. Denis dimostra già un’attenzione particolare per le tecniche del corpo indiane. In The Yogi la tecnica anzi diventa l’oggetto stesso della coreografia. La tecnica è vista come il veicolo di un innalzamento della qualità umana dell’individuo. Scrive la danzatrice a proposito dello yoga: «Si tratta di sviluppare la personalità umana attraverso il complesso potere di concentrazione di una disciplina spirituale e fisica. Come danzatrice, profondamente cosciente del dominio di sé che proviene dal controllo del proprio corpo, fui emozionata dal fatto che l’India avesse sviluppato a questo proposito un pensiero così profondo». 
Forse in The Yogi più che in Radha è presente l’assoluta necessità di manifestare in una forma esteriore degli stati interiori che sono vicini ad una certa intensità spirituale. C’è nei gesti e nella danza di The Yogi una geometria più rigorosa, meno esteriore di quella di Radha. C’è più studio introspettivo e meno colore di superficie. La narrazione allegorica è sostituita dalla creazione di un’unica immagine forte, radiante, l’immagine allucinata del cercatore di verità, dello yogi. Scrive Ruth St.Denis: «In questa coreografia i gesti sono il frutto di una disciplina della mente […]. I movimenti suggeriscono un piano più alto di esistenza, che è espresso attraverso un difficile equilibrio della testa, della braccia, delle gambe e del torso».
Tecnica del corpo e disciplina della mente: la danzatrice americana comincia ad addentrarsi con The Yogi in uno dei segreti della danza sacra hindu.


Ram Gopal: “I must dance in the now”

Ram Gopal (1912 ? - 2003) è, al pari di Rukmini Devi, una figura centrale della danza indiana della prima metà del Novecento. Come Rumini, proviene da un ambiente sociale benestante e arriva giovanissimo alla danza. Si troverà a dover imporre alla sua famiglia questa scelta, una vera e propria vocazione. Negli anni Venti per un figlio della buona borghesia indiana del Sud dell’India -- il padre era un noto avvocato di Bangalore - era disdicevole intraprendere una carriera di danzatore professionista. La campagna anti-Nautch, “contro la danza”, riguardava infatti anche le danze maschili, estendendosi all’intera professione della danza.
Nel processo di reazione al movimento anti-Nautch, che culminerà nella creazione di una “nuova tradizione”, quella della danza teatrale classica, i danzatori e i maestri tradizionali giocarono inizialmente un ruolo marginale. I protagonisti, come Rukmini Devi e Ram Gopal, non provenivano dal mondo del professionismo e dell’artigianato teatrale: erano degli outsider. Erano, come nel caso di un altro famoso riformatore di quegli anni, Uday Shankar, dei dilettanti. Era in fondo questa la loro forza, quella cioè di essere i figli delle famiglie che contavano, i figli dell’aristocrazia e della borghesia indiana permeate di cultura inglese ed europea. Erano il prodotto di quello stesso ambiente dove era nata anni prima, a fine Ottocento, la campagna denigratoria contro la danza. Il movimento anti-Nautch e quello di “reivenzione” della tradizione della danza avevano le stesse matrici urbane. Per questo il secondo poté alla fine prevalere sul primo. Si trattò di una trasformazione culturale all’interno della classe dominante che procedette di pari passo con la presa di coscienza nazionalista e indipendentista dell’élite indiana.
Quella di Ram Gopal è la storia di un artista indiano moderno che si riconosce in più maestri, in più tradizioni, in più culture, compresa quella europea. Ribellatosi alla famiglia, il danzatore indiano intraprende poco più che adolescente un viaggio di formazione nell’India rurale, vera e propria riserva culturale delle antiche tradizioni coreutiche. Nel Malabar studia sotto la guida di Guru Kunju Kurup, grande maestro di Kathakali, nel Tamil Nadu studia il Sadir nac, nel nord dell’India il Kathak. Amante delle arti visive, approfitta di questi viaggi per studiare i famosi affreschi di Ajanta, la pittura Moghul, le pose di danza immortalate nelle sculture degli antichi templi hindu. Ram Gopal diventa così una sorta di nomade della danza indiana, qualcuno che – cosa allora del tutto anomala in India – si muove tra differenti stili di danza tradizionale. Il suo incontro con La Meri – la danzatrice americana che ha “inventato” l’antropologia della danza –, le sue prime trionfali tournées in Occidente, la sua passione per i Ballets Russes di Diaghilev, la sua dedizione a Nijinsky, che volle e riuscì ad incontrare, la creazione di una forma di spettacolo di danza indiano moderno, l’insegnamento della danza indiana in Europa, sono tutte tappe di un percorso personale e di ricerca che ha ormai pochi punti in comune con la carriera di un danzatore tradizionale. Ram Gopal rappresentò un nuovo modo di intendere l’eredità della danza hindu. Il suo progetto più ambizioso fu quello di riaffermare l’antica centralità culturale della danza indiana non solo in India ma anche in Occidente.
In questo progetto di attualizzazione della tradizione, uno dei momenti più importanti fu negli anni Quaranta l’incontro con Gandhi. Ram Gopal ha dedicato un intero capitolo della sua autobiografia al problema della trasposizione sul palcoscenico delle danze tradizionali indiane. Il danzatore racconta che una prova della necessità di questo lavoro di adattamento teatrale gli venne da una critica che Gandhi gli aveva mosso dopo aver visto un suo spettacolo. Scrive Gopal: «Gandhi mi disse: io non capisco la lingua delle canzoni tamil del Bharata natyam, non capisco neanche che cosa l’attore di Kathakali tenti di comunicarmi con i suoi gesti. La musica invece giunge alle mie orecchie più comprensibile dei gesti complicati delle nostre danze. Perché non introduci ogni danza con una spiegazione, perché non ci parli di che cosa la danza vuole esprimere, che cosa sta cercando di comunicare al nostro spirito?». Gopal arriva a constatare che: «Solo quando ci si trova di fronte un gruppo di grandi pandit del teatro e della danza si può presentare con successo un lavoro di tre o sei ore senza arrangiamenti e interruzioni riuscendo ad interessare quel pubblico selezionato». Lo spettacolo di danze tradizionali, quindi, se vuole essere attuale ed interessante, deve tener conto delle esigenze del nuovo pubblico urbano, deve rimodellarsi. Ram Gopal adottò a questo scopo delle soluzioni che già aveva sperimentato con successo Uday Shankar. Eliminò le numerose ripetizioni di gesti e di formule cantate, aumentò le parti di danza, rese il viso del danzatore più naturale ed espressivo, cercò, in altri termini, per usare le sue parole, di «eliminare la monotonia». Scelse infine la forma dello «spettacolo concerto», in cui i suoi assolo più famosi si alternavano sia a pezzi tradizionali (classici o folk) presentati da altri danzatori, sia a nuove coreografie di gruppo create da lui stesso. Un programma quindi vario, «bilanciato», costruito con molti cambi di situazione che servivano ad «evitare che il pubblico cominciasse a pensare di aver già visto abbastanza invece di desiderare di voler vedere ancora» (Ram Gopal). Scrive il danzatore: «Vi è qualcosa che la maggior parte dei danzatori e dei musicisti indiani stenta a capire perché essi danzano e suonano sempre quel di più che diventa monotono e spazientisce sia il pubblico indiano che quello occidentale». 
Il lavoro di Ram Gopal – di trasposizione, adattamento, creazione di varianti e di nuove coreografie ispirate alla tradizione – ebbe il massimo dei riconoscimenti ufficiali in India nel 1945 quando con la sua compagnia vinse il premio dell’All-Indian Dance Festival. “I must dance in the now” (Io devo danzare nel presente) era una delle massime preferite in quegli anni dal danzatore indiano, che scrive nella sua autobiografia: «È donando al pubblico verità e bellezza, usando la tradizione e i suoi stili di danza, che si può conservare l’antico e anche creare il nuovo, e in questo modo mantenere la danza indiana non antica di migliaia di anni ma giovane di migliaia di anni, dentro il tempo della vita, dentro la comprensione degli uomini di oggi». Forse Ram Gopal avrebbe condiviso le parole di Rustom Bharucha, regista e critico teatrale indiano, secondo cui «una delle peggiori attitudini nei riguardi della tradizione è quella di incarcerarla dentro una forma immutabile. Se la tradizione oggi vive è invece perché è sempre cambiata nel corso della storia».


Il caso indonesiano: la tradizione tecnicizzata

Qualcosa accomuna Ruth St. Denis e Ram Gopal. Il loro è un approccio modernista, novecentesco, alla tradizione. Nessuna eredità culturale è possibile senza un tentativo di attualizzazione che si nutra del contributo originale del singolo artista. La danzatrice americana e il danzatore indiano, da punti di partenza diversi e con risultati ancor più diversi, creano entrambi un proprio personale stile di danza indiana. Affermano in altri termini il diritto individuale ad utilizzare l’eredità di quella tradizione, il suo messaggio culturale e spirituale, al di fuori dei contesti tradizionali che fin qui hanno garantito la legittimità di questo passaggio di consegne. E se quello dell’americana Ruth St. Denis può ad alcuni apparire – a mio avviso a torto – un classico esempio di “orientalismo” o, ancor peggio, di pirateria culturale, certo questo non è pensabile nel caso dell’indiano Ram Gopal. In realtà mi sembra che entrambi gli artisti affermarono il proprio diritto a garantire da sé, con la propria opera, la serietà e l’autorevolezza del loro lavoro sulla tradizione, proponendo un nuovo criterio di giudizio basato non tanto sulla presunta autenticità oggettiva della tradizione, ma invece sull’autenticità di chi si confronta con essa.
Paragonato a quest’approccio senz’altro vitale – e solo apparentemente antitradizionalista – alla tradizione, l’uso dell’eredità delle danze hindu nell’Indonesia postcoloniale mi è spesso apparso ideologizzato, finalizzato ad una logica di dominio politico. In questo caso ci troviamo infatti di fronte all’azione di un apparato burocratico di governo – mi riferisco soprattutto all’ Indonesia guidata dal 1966 al 1998 dal generale Suharto - che ha imposto modelli culturali tradizionali allo scopo di creare consenso. La presenza a Giava - isola di quasi 100 milioni di abitanti e cuore strategico della politica indonesiana - di una tradizione vivente delle danze di origine hindu è stata utilizzata durante il trentennio di Suharto, insieme ad altri tratti culturali indigeni, per alimentare il nazionalismo e contribuire alla creazione di un “ordine nuovo” (Order Baru). Un esempio chiaro di questo uso tecnicizzato della tradizione è il Sendratari, un genere di spettacolo “tradizionale” nato all’inizio degli anni Sessanta dalla riforma del Wayang wong, il grande spettacolo-rito delle corti giavanesi ottocentesche e di inizio Novecento. Non è un caso che la codificazione di questo spettacolo, un vero e proprio restyling della tradizione, venne fissata all’interno delle neonate accademie nazionali di danza per opera di un gruppo di coreografi e danzatori, i cui leader si riconoscevano nel progetto culturale governativo fondato sui concetti-guida di nazionalismo e modernismo. 
Il Sendratari è il prototipo di un nuovo genere spettacolare, una sorta di balletto nazionale, che stempera la staticità aulica e rituale dell’antico teatro danzato giavanese, grazie all’uso di tecniche drammatiche occidentali, provenienti soprattutto dal balletto classico. La nascita “in vitro” del Sendratari fu una risposta a diverse esigenze. Innanzitutto servì a riaffermare la supremazia culturale giavanese sull’intera Indonesia, una supremazia che ha le sue radici storiche nella potenza degli antichi regni hindu-giavanesi come ad esempio quello di Majapahit (XIII-XVI sec.). Con la supremazia giavanese si riaffermò anche l’idea di un’identità nazionale forte e prestigiosa da contrapporre al modello culturale subalterno imposto dai colonialisti olandesi. Inoltre, appropriandosi di alcune modalità produttive e di fruizione tipiche dello spettacolo occidentale (formazione accademica degli artisti, spettacolo come forma di divertimento urbano), il Sendratari si trovava in linea con la politica modernista del “nuovo ordine” di Suharto. Quella del generale-presidente era però una politica - sostenuta dal potente alleato-sponsor Usa - soltanto apparentemente rivolta al progresso economico e civile, e che in realtà si fondava, senza neanche troppi infingimenti, sulla repressione violenta di ogni dissenso. 
Il Sendratari offrì infine un’immagine dell’ “Indonesia felix” spendibile anche nelle relazioni con l’Occidente. Lo spettacolo in alcune sue grandiose produzioni all’aperto, davanti ai templi induisti di Prembanan (IX sec), con centinaia di danzatori splendidamente vestiti, offre alle migliaia di turisti che ancor oggi vi assistono una rappresentazione rassicurante della tradizione, un’immagine esotica ed insieme hollywoodiana. 
Alla fine degli anni Sessanta il Sendratari viene esportato da Giava nella vicina isola di Bali dove, secondo le autorità governative locali in linea con la politica del governo centrale, contribuisce in maniera notevole a quello che viene definito il “rinascimento culturale di Bali”. Leggiamo nel programma del Festival delle Arti di Bali del 1981: «Bali sta vivendo un rinascimento culturale: le feste del tempio sono più ricche e splendenti e mai come adesso vi sono state tante orchestre e forme d’arte riportate in vita». Bisogna tener conto del fatto che a partire dagli anni Ottanta il turismo non è più sentito dal governo locale come un fenomeno ambivalente, verso cui avere un atteggiamento vigilante, ma è invece visto come un elemento rivitalizzante della cultura tradizionale. Il concetto di “rinascimento”, che le autorità balinesi hanno mutuato dall’Occidente assimilando direttamente il termine inglese di renaissance, presupporrebbe un periodo antecedente di decadenza e di perdita di memoria delle radici della propria cultura. Alla fine del XVIII secolo gli Olandesi sponsorizzarono il primo “rinascimento indonesiano”, quello di Giava, la cui cultura, secondo il loro autorevole parere, aveva perduto la sua purezza classica di origine hindu. In realtà dietro la “purezza” degli accademici si nascondeva la politica di indebolimento della cultura islamica giavanese, i cui leader erano decisamente anticolonialisti. 
Il “rinascimento balinese” non sembra sorgere dalle rovine di una civiltà classica. La letteratura antropologica, gli studi degli anni Trenta-Quaranta sulla danza e la musica ci descrivono invece una cultura tradizionale vitalissima che si basava (e in parte si basa ancora) su una struttura socio-religiosa orizzontale, su un tessuto fittissimo di scambi tra i vari villaggi. Scrivevano in quegli anni Beryl De Zoete e Walter Spies: «Ogni villaggio balinese meriterebbe una monografia, così come ogni danza, ogni gamelan. Bali, per quanto piccola, è così straordinariamente varia che si potrebbe girare per dieci o cinquant’anni e non vedere tutto». Anche negli anni successivi all’Indipendenza indonesiana la tradizione culturale e artistica dei villaggi è florida. Quale rinascimento allora avviene negli anni Ottanta?
Questi anni sono in realtà quelli che segnano, parallelamente al boom turistico, il consolidamento di una nuova egemonia culturale, quella urbana sui villaggi. A partire dagli anni Sessanta, nella capitale Denpasar – come d’altra parte nelle città giavanesi di maggiore tradizione culturale – sono state create le accademie di arte governative. Per quanto riguarda la danza, sforzi notevoli sono stati fatti per sostenere il Gambuh, l’antico dramma danzato di corte balinese. Ma negli anni Ottanta e Novanta i principali impegni di queste istituzioni nazionali sembrano rivolti in maniera massiccia alla produzione di grandi spettacoli Sendratari e alla loro diffusione nei villaggi dove spesso prendono il posto degli spettacoli tradizionali. Ciò non deve sorprendere perché il Sendratari, spettacolo creato nelle accademie, viene definito in quegli anni «il genere drammatico più qualificato per assicurare la conservazione dei valori culturali balinesi». L’annuale Festival delle Arti di Denpasar - il cui evento principale sono i Sendratari “in stile balinese” prodotti dalle scuole di danza governative - è stato fino alla fine degli anni Novanta, il grande happening di luglio in cui la Bali ufficiale celebrava l’avvenuta integrazione culturale nella modernità attraverso lo spettacolo-simbolo che più mediava tra l’esigenza del mercato turistico, il bisogno del regime di Suharto di un’arte panindonesiana e la conservazione della tradizione balinese. È chiaro che la fine della dittatura di Suharto ha creato dopo il 1998 nuovi scenari ed ha rimesso in gioco molte energie politiche e culturali. Quello che alla fine degli anni Novanta sembrava un ineluttabile declino delle tradizioni locali degli spettacoli di danza più antichi di Bali (Legong, Topeng, Wayang wong) a favore del modello centralista del Sendratari, oggi non sembra più un fatto scontato. Nell’Indonesia del post-Suharto è infatti tuttora in corso un processo tumultuoso e confuso di riformulazione dei rapporti di forza tra il centro e le periferia politica dell’arcipelago, i cui risultati non sono affatto prevedibili.

   
 

Bibliografia 

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